Perché la gioia è silenziosa?
di Etain Addey
Nel libro “Una gioia silenziosa. I diari di
Pratale, racconti di una vita diversa”,
di Etain Addey racconta gli aspetti pratici, ma anche i fondamenti teorici,
che alcuni anni fa la spinsero ad abbandonare la vita urbana e tornare alla
natura recuperando un podere in Umbria, per fare una vita –che molti
definirebbero ‘scomoda’- basata sui lavori dimenticati legati alla terra, agli
animali e alla artigianalità.
Qui racconta
le motivazioni della sua scelta e i fondamenti della sua visione.
Il resto, gli
insegnamenti, gli incontri, le lezioni di vita, le intuizioni e molto altro
ancora sono invece nel libro che ha scritto.
Quando, venticinque anni fa, decisi di lasciare Roma e di
trasferirmi in un casale umbro appena abitabile con un terreno scosceso e incolto
attorno, avevo delle fortissime intuizioni a proposito di quel che mi accingevo
a fare, ma i contorni della visione erano poco nitidi.
In ogni migrazione, come ci spiega la sociologia, ci sono
fattori che spingono e fattori che attirano: motivi per andare vie e motivi per
prendere una certa direzione specifica. Vi vorrei raccontare due dei tanti
episodi della mia vita lavorativa nella metropoli che hanno rappresentato per
me il principale fattore di spinta.
Lavoravo, allora, per una grossa azienda farmaceutica
multinazionale, dove facevo la segretaria del direttore. La casa madre
dell’azienda era in Olanda e tutta la corrispondenza con l’estero si svolgeva
in inglese. Quindi, i dirigenti dei vari reparti mandavano i loro messaggi per
l’Olanda in italiano a me, io li traducevo e li trasmettevo. Un giorno scese
nel mio ufficio il dirigente che si occupava dei rapporti con il Ministero
della Sanità che mi diede un messaggio che recitava più o meno così: “Il
Ministero insiste per avere nel foglio illustrativo un avvertimento contro
l’uso del nostro farmaco X durante la gravidanza. Come possiamo evitare
questo?”.
“Quando arriva la risposta, mi chiami!” disse il
dirigente.
Io rimasi sola e pensai: insomma, quanto ai neonati
deformi che potrebbero nascere dalle mamme che assumeranno questo farmaco, di
chi è la responsabilità? Evidentemente del Ministero, ma in seguito abbiamo
visto che alti funzionari di quel Ministero intascavano i miliardi passati
dalle ditte farmaceutiche per nasconderli nel divano! Intanto, nessuno
all’interno dell’industria farmaceutica operava con senso etico, almeno non
nel proprio lavoro, le uniche considerazioni erano quelle fatte in nome del
profitto. Io avevo quel piccolo margine di libertà che la traduzione da una
lingua all’altra offre, e quindi lo usai per tradurre il messaggio in modo tale
da dare la sensazione al destinatario olandese che c’era poco da discutere con
il Ministero, che tanto valeva rassegnarsi a quell’avvertenza. Ci misi cinque
minuti in più per formularlo.
Arrivò la risposta che speravo: “Pazienza, inserite l’avvertenza”.
Per me fu una piccola vittoria, ma io non ero pagata certo per fare quello che
avevo fatto, e questi episodi erano all’ordine del giorno!
Seconda scena: erano le cinque già passate e quasi tutti
i 300 dipendenti della ditta erano ormai usciti per andare a casa. Suonò il
mio telefono, in linea c’era un medico di un grande ospedale di Milano.
“Signorina, qui abbiamo un bambino di due anni in coma. Ha preso un vostro
prodotto Y, mi passi immediatamente qualcuno che mi possa dire qual è l’antidoto.”
“Subito –risposi io- ma mi si gelò il cuore perché sapevo che a quell’ora il
nostro medico sarebbe stato di certo bloccato in mezzo al traffico sulla via
Cassia. Erano tempi ‘pre-cellulari’. Difatti, il medico non c’era e io passai
la telefonata al direttore e cominciai a telefonare a destra e a sinistra alla
disperata ricerca di una risposta. La donna che lavorava con me, Pamela, si
mise anche lei al telefono e entrambe avevamo chiara in testa l’immagine di una
piccola figura immobile sotto le mani dei medici e due genitori piangenti e
terrorizzati fuori dalla porta bianca di un Pronto Soccorso milanese. Passavano
minuti preziosi e il direttore, lui che era così bravo a fare discorsi ai
convegni sul bene che offriva l’industria farmaceutica all’umanità sofferente,
corse al secondo piano con la faccia bianca e spaventata a cercare aiuto presso
i responsabili del reparto Ricerca. Finalmente riuscii a trovare un medico
della nostra azienda sorella in Germania e passai la telefonata al direttore
che era ancora al secondo piano. Pamela ed io rimanemmo sedute alle nostre
scrivanie, aspettando notizie, incapaci di andare a casa senza sapere cosa
sarebbe successo. Dopo cinque minuti, ecco fare la sua comparsa il direttore
con il suo pesante passo autoritario, ma con un’espressione di grande sollievo,
un sorriso largo. Senza dire una parola, prese la sua borsa e ci salutò.
“Allora avete trovato l’antidoto, meno male” disse Pamela. “No –rispose il
direttore-, non è un nostro prodotto!” e partì.
Era salva la reputazione commerciale della sua azienda!
Io e Pamela rimanemmo paralizzate e senza parole a guardarci in faccia,
immaginando le telefonate disperate che in quel momento, dopo una buona
mezz’ora di tempo perso, stava facendo qualche altra segretaria di un’azienda
rivale, e il respiro del bambino che si faceva sempre più affannoso su quel
lettino del Pronto Soccorso.
No! Io non volevo più prestare il mio cervello, per quel
poco che poteva valere, a questo Mercato senza anima. I Buddisti hanno un
concetto di “giusto sostentamento”, un modo per guadagnarsi la vita che non
nuoce agli altri, ma questa idea sembra non far parte della mappa mentale
occidentale. Io qualche volta parlavo con il direttore, con il capo delle
Ricerche o con il capo del reparto Pubblicità di questi problemi etici, ma la
risposta era sempre la stessa: “Io faccio il mio lavoro!”
Il disgusto per questa mancanza di senso di
responsabilità era un fattore di spinta forte nella mia migrazione. Non si può
“uscire dal sistema”, ma certo si può smettere di collaborarvi così
strettamente.
Ma quale fu invece la visione che mi attirò in campagna?
Mi sembrava che alle mie mani mancasse, quasi come al
viso può mancare dolorosamente una carezza, quello scorrere sulle palme di
erba, d’acqua, di grano, di lenticchie, e di quelle mille altre forme di
materia da toccare, mi mancava la presenza degli altri animali, di sguardi
amichevoli di altre specie, il tocco di altri corpi non umani, avevo il
sentimento che la solitudine umana non è la condizione naturale per noi,
sentivo che ci siamo allontanati dal mondo reale, che è quello naturale. E
tutto questo lo sentivo in una maniera insieme fortissima e poco chiara.
Non sapevo niente di
vita in campagna, ma mi sono detta che i mestieri per la sopravvivenza umana
non possono essere estranei ad un essere umano! Si impareranno, si troverà chi
spiega, chi apre la porta ad una persona che torna alla terra con l’amnesia di
tre o quattro generazioni di vuoto. La mia terra, quando i miei antenati erano
contadini, era lo Yorkshire, e difatti sono venuta in Umbria perché qui il
paesaggio e la vegetazione mi ricordavano un po’ il clima e il paesaggio e la
vegetazione di quei posti.
E fui accolta da molti bravi insegnanti, contadini
generosi e delicati nel loro insegnare, che cercavano di non fare pesare la mia
ignoranza. “Oggi noialtri piantiamo le fave!” urlavano Rosa e Antonio dal loro
campo, ed era per dire: “È ora di piantare le fave, lo sai!”.
Ieri un mio amico, Felice, anche lui contadino di
ritorno, cercava di spiegare quello che succede quando si torna a fare il
contadino alla vecchia maniera. “Nonostante tutte le difficoltà, e sono tante,
quell’intuizione che avevo sul fatto che mi mancava qualcosa di molto
importante era giusta. La vita qui, in mezzo ai monti, circondati da alberi e
dai rumori della vita selvatica, mi dà molto, molto più di quello che potevo
immaginare prima, o di quello che posso esprimere.”.
È difficile non sembrare un romantico quando si cerca di
spiegare com’è questo ritornare a casa, e certo che potrei elencare esperienze
assolutamente non romantiche: il terremoto, l’acqua che ti piove dentro casa,
il vicino ubriaco che sfonda il cancello, il cercare animali dispersi di notte
nella neve, la mancanza di soldi per fare quelle cose che si facevano
spensieratamente in città, ma tutto
questo è niente in confronto al fatto fondamentale di sentirsi un essere umano
intero, capace di provvedere in tutto e per tutto a sé stesso e, soprattutto,
in confronto alla misteriosa scoperta di essere accolta e contenuta dal e nel
mondo selvatico come una parte integrante di esso.
Ed è questo la gioia inesprimibile che conosciamo noi che consapevolmente
viviamo nel mondo selvatico.